9.11.15

Prendi questa mano, Nina

 
Nina per i Tarocchi di Enologica, Salone del vino e del prodotto tipico dell'Emilia Romagna, 
dal 21 al 23 Novembre 2015, Palazzo Re Enzo, Bologna



Prendi questa mano, Nina
dimmi pure che destino avrò
ora che il vento porta in giro le foglie
e la pioggia fa fumare i falò
E c'è uno che dice "Guarda!"
uno che dice "Dove?" uno che dice "Chissà"
e c'è acqua che è ferma, acqua che si muove
acqua che se ne va
Prendi questa mano,
leggila fin che vuoi
leggila fino all'ultimo
leggila come puoi

dimmi ancora quanta vita ci va
di quanti anni sarà fatto il tempo
e il tempo cosa sembrerà
Saranno macchine o fili d'erba?
saranno numeri da ricordare
saranno barche da ridipingere
saranno alberi da piantare

Prendi questa mano,
fammi posto vicino a te
la notte è lunga da attraversare
fammi posto vicino a te
I tuoi occhi sorridono nell'ombra
le tue carte si aprono
le nostre mani si mischiano
E il presente e l'infinito
nel buio si confondono
mentre i tuoi sensi rispondono
nell'immensità.

-



Nina,  che voleva essere la ventiquattresima carta








4.11.15

Mitologia

francesca ballarini orfeo euridice illustrazione
Non bisognerebbe mai lasciare Nina da sola per troppo tempo, ma neanche per poco.
Qualcosa va sempre più veloce però là fuori, mentre qui dentro occorre sentire lo scandire dei secondi, dei minuti e, a volte, lusso e spericolatezza, pure delle ore. È tana negli alberi (vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro / e udire ogni voce, prima che risonasse), sempre.

Forse questo tempo necessario fisicamente arriva quando comincia a far freddo, quando senti casa, quando la guardi la tua casa, e quelle cose che sai che non devono andar veloci le lasci qui, come segnale per il tuo presente.

Da settimane mi (in)segue una poesia di Rilke, su Orfeo ed Euridice.
Fin da piccola è sempre stato il mio mito preferito, non sapevo bene perché, così tragico, così pulsante, così invano. Li ho sempre immaginati bellissimi tutti e due, Orfeo ed Euridice, mortali più che mai, mi erano come familiari.

Averla scoperta solo adesso - e mi dà affanno ogni volta che leggo, perché sono loro, perché funziona così - mi spiace, come aver mancato a un appuntamento, ma forse neanche tanto perché ora la capisco.

E poi più che una poesia pare una lunga strada, di estraniamento che tu sai così assurdo e concreto assieme, li senti i passi e i sassi, la radice e la morte sospesa, e il fiatone di chi il fiato ancora ce l'ha, e magari ogni volta ci speri, giuro che ci speri che la fine cambi, che lui non si volti, magari lui stavolta avrà fede e non si volterà.



Orfeo. Euridice. Ermes

(di Rainer Maria Rilke - trad. di Gilberto Forti)


Era l'arcana miniera delle anime.
Esse per quella tenebra vagavano,
mute vene d'argento. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,
e greve come porfido sembrava
in quel buio. Di rosso altro non v'era.

V'erano rocce,
boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto
e quello stagno grande, grigio, cieco
che incombeva sul suo letto remoto
come cielo piovoso su un paesaggio.
E la striscia dell'unico sentiero,
scialba tra prati, facile e paziente,
pareva lino steso a imbiancare.

Per quell'unica via i tre venivano.

Primo, nel manto azzurro, l'uomo snello,
muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.
Il suo passo ingoiava il sentiero
a grandi morsi, senza masticare;
dalle pieghe cadenti gli pendevano
le mani, grevi e serrate, ormai
dimentiche di quella lieve lira
che sulla sua sinistra era cresciuta
come tralci di rosa sull'ulivo.
E i suoi sensi sembravano divisi:
l'occhio correva avanti come un cane,
si voltava, tornava e ripartiva
e aspettava lontano, a ogni curva,
ma l'udito indugiava come l'odore.
Talvolta a lui pareva che intralciasse
il passo agli altri due che dovevano
seguirlo su per tutta la salita.
Allora dietro solo l'eco
dei suoi passi e il vento nel mantello.
Ma diceva a se stesso che venivano,
e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.
Sì, venivano infatti, ma entrambi
avevano il piede troppo lieve.
Se si fosse voltato (e non poteva,
poichè un solo sguardo frantumava
tutta l'impresa da portare a termine),
li avrebbe visti, i due dal piede lieve,
camminare in silenzio alle sue spalle:

il dio del moto e dell'ampio messaggio,
con il casco sugli occhi luminosi,
l'agile verga tesa innanzi al corpo,
le ali oscillanti intorno alle caviglie;
e nella sua sinistra, in pegno, lei.

Lei, tanto amata che una sola lira
levò lamento più che mai le prefiche;
e sorse un mondo di lamento in cui
tutto ricompariva: bosco e valle,
strada e paese, campo e fiume e bestie;
e intorno a questo mondo di lamento,
così come intorno all'altra terra,
un sole si volgeva, e tutto un cielo
pieno di stelle, silenzioso, un cielo
di lamento con stelle sfigurate:
lei, tanto amata.

Ma, tenuta per mano da quel dio,
con il passo frenato dalle lunghe
bende funebri, ella camminava
incerta, mite e senza impazienza.
Raccolta in sè e come trasognata,
non pensava a colui che le era innanzi,
nè alla strada su verso la vita.
Era raccolta in sè, e la impregnava
il suo stato di morte.
Se un frutto è pegno di dolcezza e d'ombra,
quella sua grande morte colmava,
così nuova che nulla lei coglieva.

A una verginità nuova era giunta,
e intangibile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore verso sera,
e le sue mani così disavezze
alla vita nuziale che persino
il contatto di quell'esile dio
tanto lieve e gentile nel condurla,
la turbava per troppa confidenza.

Ormai non era quella donna bionda
che si udiva nei canti del poeta,
non più il profumo e l'isola del talamo,
né più era il possesso dell'uomo.

Era già sciolta come una lunga chioma
e già dispersa come pioggia in terra,
e diversa come retaggio in cento.

Ella era già radice.

E quando all'improvviso
il dio la fermò e con dolore
pronunciò le parole: Si è voltato!-,
lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma lassù, scuro sull'uscita chiara,
stava qualcuno, irriconoscibile.
Stava e guardava un tratto del sentiero
in mezzo ai prati ove il dio del messaggio
si voltava in silenzio, mesto in viso,
e si avviava a seguire la figura
che già ripercorreva quel sentiero,
con il passo frenato dalle bende,   
incerta, mite e senza impazienza.



-




7.4.15

Un puntino vicinissimo




Vedi,
 gli disse la Luna,
 la distanza è cosa così piccola, 
e senso così vano, 
se io e te ci guardiamo.





*

24.2.15

Adesso che

francesca ballarini illustrazioni il piccolo principe

Adesso che non so più niente
che il vuoto è bella dimora
che ho passi senza arsura
che siedo e imparo
a esitare, adesso

che non sei più al centro
e quello che conta non è più
al centro
ma spostato
tra le mani
dove le dita si disarmano
e fanno un gesto limato,
adesso questa categorica bellezza
di rami e cieli
pugnala solo
perché entri luce.



(Chandra Livia Candiani, da
La bambina pugile, ovvero La precisione dell’amore - Einaudi 2014)
  

Il piccolo principe è cresciuto -
ama le volpi, tanti tipi diversi di fiori, e non ha alcun interesse a diventare re.






*


11.2.15

Come tanti puntini tra parentesi

francesca ballarini illustrazione szymborska
(...)

 Dove mi ero rintanata,
dove mi ero cacciata –
niente male come scherzetto
perdermi di vista così.

(...)


w.s.




A Shaun Tan, a Wislawa Szymborska, a chi mi sveglia, a chi mi trova.


*





10.2.15

Disegna la paura

francesca ballarini illustrazione
"Che cos'altro sconvolge l'occhio se non l'invisibile?"


  

Bobò, così detto da Nina, che poi è il Babau, Boogeyman - come lo chiamate voi? Da me stava in soffitta, al quarto piano, e la luce si spegneva sempre prima che tu avessi fatto in tempo a prendere quel che dovevi prendere, e non c'era modo di scendere giù dalle scale al buio senza correre a perdifiato, prima che. 
Prima che? Non so, però prima, dovevi fare prima.


*



2.2.15

Una baia che era un'onda

Il punto non è cosa vedi, ma dove sei. 

Dipende sempre da dove arrivi, da dove guardi - come a Despina, come in tutte le cose. 
Se sei dentro vedrai la baia, terra ferma che protegge. Se sei fuori vedrai l'onda, enorme acqua che travolge.





*
*



26.1.15

La strada

francesca ballarini illustrazione bianca tarozzi


Sì. Cammina e cammina
per la strada sbagliata,
bianca, quella bambina
non ritrovava più le cose note:

dov'era la sua casa,
sul lato della strada,
con due sedie sui lati della porta,
la grande sporta

di paglia piena di fagioli secchi
da sbucciare e nel cesto quattro stecchi?
E il lavatoio lì, di fronte a casa,
di pietra grigia, sotto la tettoia?
 
Era tutto scomparso. Ed era mai
esistito davvero?
Alto nel cielo
le nubi trasvolavano di fretta

senza badarle: e presto un temporale
si annunciava, e un gran vento
soffiava. Fino a che
lo capì: quella strada non portava

a nulla, quella
era una falsa strada, dritta e muta
non abitata, non riconosciuta.
Si fermò; in quel momento

vide quattro stradini col piccone:
battevano, battevano la strada,
per migliorarla, o forse per pulirla,
per renderla più dritta, per rifarla.

Dissero che il paese era lontano
e da tutt'altra parte, e lei
ripercorse la strada sconosciuta
per tornare da dove era venuta.

Così era cominciato, il grande viaggio
fatto di traiettorie contrapposte,
percorse, poi negate e riproposte
in altra direzione, all'infinito:

e il viaggio era scandito
da poche frasi con gli sconosciuti
ch'erano lì per caso, nel momento
in cui mutava il senso dell'andare.

Strade percorse in sogno, grandi case
esplorate, e le chiese
immense, sconsacrate,
e altissime muraglie

come palazzi assiri
o montagne scolpite come a Petra
in un paesaggio senza spiegazione,
in un silenzio senza una ragione.

La strada che non sai dove ti porta
è più lunga, più lenta: ad ogni passo
qualche cosa ti tenta, ti costringe
a fermarti, ti spinge

dietro la curva, o in un sentiero a lato:
per vedere la felce chiaroscura
o un grande masso, in mezzo alla radura
davanti a un casolare abbandonato.

No, non era la meta ad incantare:
era l'andare senza alcuna meta.



(Bianca Tarozzi, da "Prima e dopo") 





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